Sace: export quale ancora di salvezza
Se nel 2018 l'export incidesse per il 44% sul PIL, generando esportazioni aggiuntive per circa 40 miliardi di Euro l'anno, il reddito nazionale sarebbe incrementato di 125 miliardi di Euro, pari a una crescita del 9% e con la conseguente creazione di 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro.
E' quanto emerge dallo studio SACE "Alla ricerca della crescita perduta. Opportunità e ritorni di un'Italia più internazionale" presentato il 19 novembre al terzo Forum Nazionale Valore D.
Secondo lo studio, dal 2007 al 2013 abbiamo perso 8,5 punti di PIL concentrando il dibattito degli ultimi anni prevalentemente sul rilancio di consumi e investimenti (circa tre quarti del PIL italiano) ma sottovalutando la componente export che oggi, al lordo delle importazioni, vale circa il 30% del PIL.
Ma i paesi che non colgono le opportunità di internazionalizzazione rischiano un progressivo declino.
Tra il 2007 e il 2013 le esportazioni dei principali paesi europei hanno contribuito alla crescita del PIL: Germania +7,5%, Spagna +4,5%, Francia +1,1%. In controtendenza l'Italia, che ha registrato -0,9% (circa 13 miliardi in meno a valori costanti) poiché il saldo positivo import-export è dovuto alla forte diminuzione delle importazioni, a seguito della riduzione dei consumi interni.
Germania e Spagna hanno adottato da tempo una strategia di diversificazione dei mercati di destinazione che, unitamente a una over performance su tutte le aree geografiche, ha portato i due paesi a registrare nel 2007 un'incidenza dell'export sul PIL rispettivamente del 47% e 31%. Nel 2017 si prevede che l'export tedesco incida per il 58% (25% più dell'Italia) e quello spagnolo per il 41% (+ 8%). Negli ultimi tredici anni le esportazioni tedesche e spagnole verso l'Europa sono cresciute a un ritmo doppio rispetto a quelle italiane, quelle verso i paesi avanzati extra-europei hanno registrato incrementi superiori di 4-6 volte. E anche sui mercati emergenti dell'Asia, Africa e Sudamerica il nostro Paese ha marcato il passo.
Le micro dimensioni delle imprese italiane non devono essere una giustificazione a questa situazione: il 15,2% delle imprese tedesche ha 10-49 dipendenti (4,8% in Italia, 5,2% in Spagna, 4,6% in Francia), ma il 47% vende prodotti oltreconfine. In Italia solo il 29% delle PMI esporta, in Spagna il 48%. Analoghe differenze si riscontrano per le imprese di dimensione superiore (50-249 dipendenti e oltre 250 dipendenti).
Da un'indagine Istat condotta su 30.000 imprese con oltre 20 dipendenti, il 51% delle intervistate ha registrato una crescita del fatturato estero dal 2000.
L'Italia è il quinto paese manifatturiero a livello mondiale, secondo in Europa, primo al mondo per prodotti distintivi nel settore agroalimentare (264 prodotti Dop e Igp, 332 referenze Doc nel vino). Circa 20.000 imprese esportano in 15 Paesi e altre 15.000 sono presenti in minimo 6 mercati, ma potrebbero ampliare il loro raggio d'azione. I 100 distretti sono votati all'export, con il 45% delle vendite fuori dall'Italia (rispetto al 34% delle imprese non distrettuali). E anche le piccole imprese stanno sviluppando una crescente attitudine ad aggregarsi e a seguire strategie comuni, con circa 1.400 contratti di rete.
Secondo Sace, sfruttando adeguatamente la leva dell'export potremmo tornare a una situazione pre-crisi: 40 miliardi di export equivalgono a quanto esportiamo in Francia. Metà di questo maggiore export potrebbe derivare dai mercati emergenti a basso-medio rischio e in crescita: circa 13 miliardi attraverso una migliore penetrazione di 5 paesi (Cina, Polonia, Algeria, Turchia e India), altri 6 miliardi in una rosa di geografie in Medio Oriente (Emirati Arabi, Arabia Saudita, Kuwait), in Sud America (Messico e Brasile), in Asia (Corea del Sud, Repubbliche del Caucaso, Vietnam), e in Tunisia.